Emblematica questa foto di Stefano Galli, l’Animale da cortile: “Trovato in terra a Milano, proprio adesso” mi scrive pochi giorni fa.
Lui suonò la chitarra in ogni pezzo o quasi di quel disco di Bepi & The Prismas del 2013.
Chissà se è voluta la scelta di fotografare la seconda ombra umana, dopo quella che campeggia sulla label del CD sull’asfalto.
Smarrito? Caduto da un auto? Gettato via?
Quel che è certo è che da un simile scatto possiamo farci suggestionare e dargli un forte valore simbolico: il passato, lo dice la parola stessa, passa.
Già, come il cane che proiettava la seconda ombra, accanto alla mia.
Non è solo il supporto-CD (vi risparmio i commenti tecnici, una volta tanto) a essere ruzzolato nella polvere, ma il concetto stesso di album, di insieme di canzoni che stavano insieme grazie a un senso di fondo che le univa: a volte era il genere musicale, a volte il gruppo di musicisti che le aveva animate, a volte il tema trattato, ma più spesso ancora era semplicemente la fase della vita dell’artista che le aveva concepite.
Un album era come il suo equivalente di fotografie cartacee: quel che va da quel punto a questo.
Osservato e ascoltato nel suo insieme, ci rivelava chi eravamo allora, cosa ci appassionava, a cosa tendevamo, quali erano i nostri obiettivi, cosa ci regalava gioia e cosa paura.
Un album poteva e può anche essere un banale insieme di singoli, certo, ma, nel ricordare che la cosa oggigiorno non ha commercialmente più alcun senso, ricordo pure che viene a mancare proprio quel concetto di “pagina” e non di “riga” che fa una bella differenza.
“Nömer dù” per i bergamaschi non fu “Coston Beach” e poi “Kentucky”, esattamente come a livello nazionale, che ne so, “C’è chi dice no” di Vasco non fu solo il brano omonimo e poi “Brava Giulia”.
“SP8” per me fu l’album dell’esperienza americana in Tennessee, l’agosto torrido a registrare in casa di Paolo G, il know-how di Mauro Galbiati, l’apporto di Wiki Moiolo come chitarrista, il viaggio con la Guzzi fino a Cusio per fare la foto di copertina, la canzone per ricordare mio padre…
Avevo 39 anni. Credevo fortemente in quel disco, umanamente prima ancora che commercialmente.
Ora ne ho quasi 51 e non so nemmeno se mai ne farò un altro.
Il passato, l’ho già scritto, passa. Molto ti lascia, ma ancor più si prende.