Ma la sèmper ciamàda “eco”, ma in gergo tecnico si preferisce parlare di “delay”.
Che cos’è? È quel giochino che ripete una parola, una frase o una sequenza di note per tot volte, alla velocità che decidiamo noi.
Niente di particolarmente moderno: è stato uno dei primissimi effetti usati dai fonici, già decenni fa, forse ancor prima che la musica elettronica prendesse piede: non chiedetemi come si fa a ottenere (ga só gnach cosa l’è ü fusibile mé), ma non dev’essere particolarmente difficile per chi sa smanettare coi software audio.
Poi, come sempre, si può iniziare a giocare, oserei dire “a creare”, con questi effetti: non ti limiti al ritocco, al dettaglio, all’orpello, insomma, ma ti spingi un pochino oltre. Io almeno lo faccio, anche se non so in quanti se ne siano mai accorti (ne parlo anche in “Proud” e nelle sue appendici di questi miei trastulli).
Uno dei più celebri è quello “finto” di “Fermoposta” (album “5ar!” – 2008).
“Finto” perché non è un vero effetto, ma sono io che fingo di usarlo. Un delay ripete ciò che ha sentito, mentre in questo caso la macchina si ribella all’uomo perché osa persino cambiare le parole, trasformandole in un commento (pòta, a mé chi laùr ché i ma fa grignà öna cifra). 😂
La parola “North” (“come Peter North”) dovrebbe essere ripetuta tale e quale, no? Invece il delay dice “lónch, làrch, gròs”, come a ricordare a tutti chi è l’attore in questione!
Idem in “Ciao” (“uélla“, “öh“, “gliura?“)…
È un delay che ci deve mettere qualcosa di suo sempre! 😂
Pensate che ho sempre avuto quest’istinto ad auto-delayarmi (mi si consenta il neologismo), al punto che spesso i fonici in studio mi dicevano: “Ma no, scusa: se vuoi un delay in quel punto te lo metto io che almeno viene perfetto!”
Di ólte i ghìa resù, di ólte ‘mpó meno, perché ciò che volevo non era proprio subito ottenuto con quattro colpetti di mouse.
In “Ol pedriöl” (album “T11” – 2018) ne uso diversi incrociati (perché vanno a velocità diverse: “A ‘Lmèn” e “pédre”) e fin qui niente di trascendentale: sai che uno come Alberto Sonzogni ti caccerà dietro quattro ostie col pensiero e fine del cinema.
Sono già più ricercati quelli che faccio dal vivo (non sono veri delay: li faccio io con la voce, anche se a volte noto che il fonico corre a controllare le impostazioni del mixer, come se credesse di aver attivato un tasto che invece è spento).
Che birba dispettosa quel Bepi!
Su “Brasil” (album “Ca7” -2011) prima ripeto più volte le parole “nsèma”, “Jones” e “tóle” (e va beh), ma poi inizio a farlo “parlare”, questo effetto, perché il delay prende l’ultima parte della parola “vergóta” e la fa diventare “góta” (che ha un significato a se stante e pure parecchio allusivo, se collocato nel contesto della canzone).
Lo stesso giochetto viene fatto su “Daddy Boogie” (album “SP8” – 2013): “perennemente nell’attesa de fa argót” diventa semplicemente “gót” che in dialetto è infinito presente di “godere” (insieme al più usato “gudì”): in qualche modo è come se io svelassi che cosa stavo attendendo perennemente di fare.
Simili a quella già citata di “Peter North” sono le risposte, nella stessa canzone, a “passi prèssi” e “’ssé sèssi”: in teoria dovrebbero ripetere le stesse, identiche parole e invece la prima volta diventa “pressi passi” (ol cuntrare ‘nsóma) e la seconda è un vero e proprio commento alla frase precedente (“pòta, passi…”)
Come dite? I’ capìt fò negót?
Pòta, allora niente…Buon weekend! 😂










